Esiste davvero un buco di bilancio dovuto alle pensioni troppo elevate?
Tutti gli attacchi alle pensioni dei lavoratori portati avanti da trent’anni a questa parte si fondano sulla presunta insostenibilità della previdenza attuale per le casse dello Stato. Nel Bilancio Inps per il 2023 si può leggere come le entrate previdenziali ammontino a poco più di 420 miliardi di €, di cui più del 60% sono i contributi versati dal datore di lavoro per conto del dipendente e il restante – tralasciando voci di entrata trascurabili – sono trasferimenti statali per coprire il buco di bilancio1. Un buco enorme, è vero, ma non tutto è come appare.
Innanzitutto le pensioni sono pagate attraverso i contributi versati dai lavoratori, quindi non è una scelta politica giusta conteggiarle fra le spese dello Stato. Il concetto di “spesa pensionistica” va perciò totalmente respinto: vale solo per le pensioni sociali. Secondo i dati Istat del 2021, «Scorporando, come dovrebbe essere e come fanno molti Paesi, la spesa assistenziale da quella pensionistica, la cifra sarebbe invece di 215 miliardi, cioè del 12,1% del PIL [anziché 278,5 miliardi, corrispondenti al 15,7 % del PIL]. Perfettamente in linea con la media UE (anzi anche più bassa)»2.
Secondo poi, ogni mese ogni lavoratore versa il 33% dello stipendio lordo in contributi. Questo significa che con 43 anni di lavoro si coprirebbero 21,5 anni di pensione3, se questa fosse pari allo stipendio. Ma non è così: le pensioni effettive sono sempre notevolmente più basse dello stipendio, per cui ne consegue che una parte dei contributi versati dal lavoratore “spariscano” e siano usati per altri scopi, non per la sua pensione (che si è pagato). La differenza è consistente e, moltiplicata per tutti i lavoratori e per i circa 20 anni medi di pensionamento della popolazione italiana, si quantifica in miliardi di €. Questi, pur essendo stati versati dai lavoratori in oltre 40 anni di contribuzione obbligatoria, non vengono loro restituiti nella pensione.
In terzo luogo, dobbiamo ricordare che l’entità della cosiddetta “spesa pensionistica” viene calcolata sempre al lordo delle tasse ma che, nel momento in cui il pensionato riceve la sua pensione, il 20% circa viene trattenuto in tassazione Irpef4, che lo Stato incassa e che quindi rappresenta una entrata che non può essere conteggiata come “spesa”.
Per concludere si tenga presente un’ultima cosa: il totale dei crediti previsto dall’INPS per il 2023 ammonta a oltre 190 miliardi di €, a fronte di circa 101 miliardi di debiti. Tra i crediti troviamo ben 134 miliardi di € di contributi non riscossi, ossia non versati dalle imprese5. Come ogni anno una parte di essi viene “condonata” (svalutazione del debito) per difficoltà finanziarie, rischio di fallimento o ristrutturazione aziendale, nonché per cambiamenti di mercato sfavorevoli nel settore economico di pertinenza dell’impresa, ecc.6. Per il 2023 sono stati condonati 8 miliardi e 965 milioni di € di contributi dovuti per il lavoro dipendente… Più del costo del Reddito di Cittadinanza, che ammontava soltanto a 8 miliardi e 470 milioni! Anche in questo caso siamo davanti a una scelta di classe: condoni alle classi sociali abbienti e tagli alla spesa sociale per i diseredati.
La domanda che ci poniamo, a questo punto, è una: come mai i sindacati non denunciano questa situazione e non pretendono che i contributi dei lavoratori siano effettivamente usati solo per pagare le pensioni?
Quale proposta avanzare a livello previdenziale?
La questione previdenziale è politicamente importante perché rappresenta una problematica comune a tutto il lavoro dipendente. Il potenziale unificante, a livello di costruzione del dissenso e mobilitazione di protesta, è risultato evidente anche di recente, con le contestazioni di massa avvenute in Francia. A nostro avviso ciò pone almeno due problemi politici.
Il primo è la necessità di una rappresentazione del problema basata su categorie interpretative che rappresentino il nostro punto di vista, quello di chi la pensione deve percepirla e non elargirla. Scardinare la narrazione secondo cui le pensioni vanno abbassate perché causano un buco di bilancio insostenibile è un primo punto: semmai il problema è che il capitalismo italiano non riesce a sostenersi senza derubare i lavoratori dipendenti dei loro contributi e crea, in questo modo, un buco di bilancio. Un altro è rappresentare l’attacco trentennale alla previdenza portato avanti dai Governi a partire dal ’92 in una forma utile a comprendere le riforme che vengono fatte innanzitutto dal punto di vista dell’impatto che hanno sulle nostre pensioni. Per questo motivo, nel corso dei nostri studi (ancora non tutti pubblicati), abbiamo suddiviso i provvedimenti delle leggi pensionistiche occorse dal 1992 a oggi per categoria di attacco (anziché per ordine cronologico o in base al tipo di governo che le ha promulgate), cioè per il tipo di effetto che hanno avuto sulle pensioni. Le categorie individuate sono le seguenti: attacco al valore nominale delle pensioni; prolungamento dell’età pensionabile; attacco alla “base pensionabile” (ossia base retributiva e base contributiva); rivalutazione dell’età pensionabile; compromissione della rivalutazione degli importi pensionistici; privatizzazione del sistema previdenziale. “Incasellare” gli effetti delle nuove disposizioni che vengono promulgate potrebbe aiutare a comprenderne il senso politico e a destrutturare la veste ideologica nella quale vengono presentate, oltre che a sviluppare sul tema un linguaggio condiviso alternativo, d’opposizione.
Il secondo problema politico è quello rivendicativo. Una lettura indipendente della questione può aiutare a formulare rivendicazioni nuove e centrate rispetto al dibattito politico in corso, ossia capaci di interagirvi e di contrapporvisi allo stesso tempo, incrementando le potenzialità di egemonia culturale sulla questione. Tuttavia non è facile costruire una controproposta complessiva in materia previdenziale, né è possibile farlo senza tenere in considerazione la tenuta dei conti dello Stato e della finanza pubblica.
Per prima cosa, allora, potrebbe essere meglio cercare di individuare un nodo centrale che possa svolgere un ruolo di rappresentanza di chi decide di opporsi (o soltanto di non condividere) alle politiche previdenziali dei governi, vale a dire una rivendicazione sufficientemente generale ed esemplificativa, capace di catalizzare le diverse opinioni e sensibilità di chi non condivide l’approccio governista e le politiche di austerità. In quest’ottica, lo studio del passato può darci risposte per il presente.
Il problema della tenuta di bilancio non nasce nel 1992. Periodicamente era già occorso diverse volte durante il secolo passato. A quell’epoca a grandi aumenti della spesa sono corrisposti aumenti delle aliquote contributive7 e perciò, dal momento che il gettito contributivo rappresenta la principale voce di entrata del bilancio previdenziale, si può dire che i problemi venissero risolti aumentando i contributi da versare. Nel corso di una precedente analisi avevamo evidenziato come gli aumenti contributivi andassero differenziati tra i contributi versati dal dipendente (che chiamiamo “contributi salariali”) e quelli versati dall’imprenditore (contributi datoriali). Sostenevamo, poi, che gli aumenti dei contributi datoriali non avessero comportato una diminuzione dei salari: «l’aumento dei contributi datoriali era previsto in aggiunta al salario, come incremento della retribuzione lorda»8. La componente datoriale, difatti, è sempre stata un “versamento extra” del capitalista fin dall’inizio (L. 603/1919).
Ora, osservando «la serie storica degli aumenti delle aliquote si scopre che dal ‘96 ai giorni nostri vi è stata una sola variazione, consistente in un +0,30% (2007) per i contributi salariali. Se, dunque, fin dall’inizio del processo di smantellamento del sistema previdenziale, avviatosi fra il 1992 (Riforma Amato, D.L. 503/1992) e il 1995 (Riforma Dini, L. 335/1995), le aliquote contributive non sono state quasi ritoccate, probabilmente è perché si è pensato di agire sulla riduzione delle pensioni (uscite) anziché sull’incremento del gettito (entrate). Si è trattato, perciò, di una scelta»9.
La nostra proposta, dunque, è di incrementare le aliquote datoriali per immettere liquidità nel bilancio statale e reinnalzare le pensioni dei lavoratori, nella consapevolezza che un intervento su questo piano, anche se minimo, porterebbe in dote un grande gettito di entrate. Ma in fondo sarebbe sufficiente imporre agli imprenditori il rispetto della legge versando tutti i contributi. A quel punto anche ripristinando le vecchie aliquote fiscali il Bilancio sarebbe decisamente in attivo.
Da una prospettiva di questo genere appaiono velleitarie proposte come quella formulata di recente dai sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil): «Occorre introdurre una pensione contributiva di garanzia inserendo elementi di solidarietà all’interno del sistema e agendo attraverso il mix tra anzianità ed età di uscita. Il che vuol dire che più crescono contribuzione ed età anagrafica, più aumenta l’assegno di garanzia, valorizzando tutti i periodi degni di tutela come il lavoro di cura, i periodi di disoccupazione, la formazione, le politiche attive, gli stage»10.
Si capisce che i veri becchini di ogni miglioramento previdenziale sono proprio quei sindacati che dovrebbero avanzare proposte per accrescere l’importo previdenziale e ridurre gli anni necessari a uscire dal mondo del lavoro. Se questa è l’opposizione delle parti sociali, i padroni e il capitale possono dormire sonni tranquilli.
E. Gentili, F. Giusti e V. Merlin
1 INPS: Bilancio preventivo 2023, Tomo I, p. 85.
2 G. Trombetta, I veri numeri del sistema pensionistico italiano, L’Antidiplomatico, 13/10/2023.
3 Per un’analisi più dettagliata si veda, di V. Merlin, https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_grande_imbroglio_furto_con_destrezza_dei_contributi_pensionistici_dei_lavoratori_dipendenti/39602_45009/
4 Secondo i dati Istat del 2021 citati in G. Trombetta, op. cit., le tasse ammontano a 62,1 miliardi di €.
5 INPS: Bilancio preventivo 2023, Tomo I, pp. 86 e 87.
6 Questi criteri provengono dal Principio Contabile n. 15 dell’Organismo Italiano di Contabilità, organo istituito dal Governo D’Alema e composto da sole associazioni datoriali di rappresentanza.
7 All’incremento della massa delle pensioni di oltre 10 milioni verificatosi fra il 1955 e il 1975, lo Stato ha reagito quasi raddoppiando l’aliquota contributiva complessiva, portandola dal 14,41% (1960) al 20,77% (1975) e, poi, al 23,31% (1976); all’aumento di 1.229.000 pensioni avvenuto fra il 1990 e il 1995 è corrisposto un aumento dell’aliquota dal 25,95% al 27,16% e, infine, al 32,70% (1996). Fonti: serie 1910-2010 Ferrera [2012], su dati INPS 2012; serie 1960-2010 Brambilla [2015].
8 Si veda l’articolo di E. Gentili, F. Giusti e S. Macera, in https://www.machina-deriveapprodi.com/post/pensioni-lavoro-e-welfare-ii
9 Ibidem.